32 ricoveri ospedalieri, di cui 26 a causa diretta del diabete, e 22 di lungo degenza; ho una certa dimestichezza in fatto di vita nel reparto di un ospedale, e nella fattispecie il mio soggiorno di degenza l’ho sempre fatto presso il Policlinico S.Orsola – Malpighi di Bologna (fedele alla linea). In 45 anni di vita con il diabete sono passato dai primi ricoveri in stanzoni di venti letti, ad otto, poi quattro ed una volta a due letti. Le condizioni di “comfort” sono sempre state inesistenti: nel corso del primo ricovero nel 1964 mia madre trovò nel piatto della verdura (bietola) uno scarafaggio; le condizioni igieniche dei bagni sono sempre state paragonabili a quelle di un treno merci adibito a trasporto bestiame (almeno in alcune occasioni). Quindi se si parla di comfort ospedaliero si deve usare cautela e prudenza, anche se la situazione è migliorata rispetto alla fine degli anni 80/90. La premessa ampia di questo post trae spunto dall’articolo firmato dal prof. Umberto Veronesi pubblicato sul quotidiano Il Corriere della Sera del 23 maggio scorso, dal titolo: “Mai più cena alle sei negli ospedali” che linko per una lettura completa. La valutazione e le proposte del professore sono apprezzabili e condivisibili, ma realizzabili? I reparti ospedalieri più frequentati per il ricovero oggi sono quelli di medicina generale o interna che dir si voglia, nel corso dei miei recenti ricoveri ho notato due cose: spesso si trovano ricoverati cittadini comunitari ed extracomunitari che abbisognano di cure, ma soprattutto di una pasto; i ¾ dei degenti sono anziani abituati a mangiare ad orari anticipati rispetto alle “nuove generazioni”. Infine mai come in questi anni si fa sempre più larga, anche per quanto riguarda il soggiorno ospedaliero, la forbice tra ricchi, autosufficienti e poveri; e con il costo delle spese di vitto e alloggio ospedaliero che si aggira sui 1000 euro al giorno la sostenibilità del problema comincia ad essere una fatto molto serio per la collettività tutta.