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La settimana scorso una mia amica in rete mi ha rivolto una richiesta circa la mia conoscenza o disponibilità a darle una mano nella ricerca di materiale trattante l’argomento della paura dell’ipoglicemia dal punto di vista emozionale e psicologico in quanto le occorreva per redarre una tesina. Io di buona lena mi sono messo a scandagliare la rete e cataloghi bibliografici per trovare documentazione utile al riguardo, ma poi oltre a ciò mi son detto: posso scrivere benissimo una mia tesina al tal proposito che non ha la pretesa di essere la verità ma semplicemente un forma di relazione su come vivo e ho vissuto la paura dell’ipoglicemia nei comportamenti quotidiani e nell’impatto psicologico.

La paura dell’ipoglicemia in me ha avuto vari stadi. Il primo stadio era una paura disperata e disperante lungo la mia infanzia e tale reazione aveva una frequenza così elevata poiché tra i tre e dieci anni d’età le ipoglicemia si succedevano con periodicità mensile, e trimestralmente finivo in “coma” con perdita totale di conoscenza e conseguente ricovero ospedaliero  di lungodegenza. La paura aveva un forte impatto emotivo e psicologico lasciando un trauma profondo che è rimasto presente nella memoria in modo permanente ancora oggi. La paura da bimbo aveva un significato ancora più marcato per me e i miei genitori, si chiamava: terrore; e non poterla governare o prevenire in modo sufficiente portava ad a vivere in un regime di paura pura e totale. Paura di cadere, di farsi male, di andare in bicicletta, di nuotare. Il paradosso della fase infantile estremo era di essere prigionieri della paura e di non avere nessuna via di fuga: allora per evitare il coma ipoglicemico i medici consigliavano a mia madre di tenere la glicemia alta, ma poi il livello dello zucchero nel sangue arriva a punti talmente elevati e incontrollabili da portarmi al coma iperglicemico con cheto acidosi, convulsioni ed elevato rischio di edema cerebrale, e allora di nuovo ancora in ospedale. Tutto questo tra il 1964 e il 1970.
La paura dell’ipoglicemia rimane anche con lo scorrere dell’adolescenza, ma in quei anni cambia il mio atteggiamento: aspetto che arrivi ma tanto cerco di fare la mia vita sociale seppur sentendomi limitato, invalido nel compiere determinate cose proprio per il mio essere diabetico. E mentre cresco, divento giovane adulto noto un cambiamento nelle ipoglicemie: non perdo più completamente la conoscenza, riesco a tenere una larvale percezione di dove sono ma il dramma risiede nel non riuscire a governare il mio corpo e la volontà, quasi come se ci fosse uno sdoppiamento della personalità: una parte di me dice di reagire al demone ipoglicemico e l’altra invece di spinge per andare in folle. L’evoluzione della paura cambia volto, si trasforma in fobia da perdita di controllo e attacco di panico conseguente, con qualche episodio sincopale collegato alla ipo. Poi nella fase di maturità della mia vita la paura dell’ipoglicemia cambia ancora una volta pelle e diventa una forma di vergogna che provo quando ancora una volta ci cado: la cosa, ad esempio mi è accaduta alcune volte sul posto di lavoro per la prima volta e ciò è stato per me una ragione di imbarazzo e ulteriore impotenza, anche se i miei colleghi sono a perfetta conoscenza della personale condizione. Ora il mio stato di paura si è molto ridotto, un poco grazie alla presa di coscienza migliore dello stato in qui vivo ormai da cinquant’anni, e poi dal miglioramento notevole delle insuline distribuite, esempio: con 38 mg/dl di valore glicemico una volta sarei andato in coma ed oggi riesco, anche se a fatica, ad autosomministrarmi una bevanda zuccherata; poi con l’impiego del sensore glicemico abbinato al microinfusore ho uno scudo aggiuntivo che mi fa la guardia. Non abbiate paura!!!
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