Le vicende ti prendono e occupano uno spazio quotidiano ben delineato e marcato: quando conosci, esplori, viaggi, raggiungi un obiettivo e poi sei già lì che ne pensi a uno nuovo, pronto per ricominciare. La mente non ha limiti come il corpo, poiché anche solo per esplorare tutta la terra nella superficie emersa e sommersa dalle acque non basta una vita e neanche sette o più. Forse è proprio nell’uomo, dalla sete di conoscenza ma anche di dominio, che nasce e si evolve l’immaginazione e la capacità o meno di adattamento per sopravvivere e raggiungere un punto chiamato meta.
Il diabete è una malattia la quale si è cercato di definire in diversi modi nel corso degli anni, sia dai medici, come da parte dei media e stessi ammalati, ma nessuna definizione ha mai reso un prospetto chiaro e universale della sua molteplicità e coloritura di sfaccettature. Nel mio divagare temporale attorno al tema, frammisto a naturale cazzeggio, trovo che il diabete può essere definito come malattia “fluida”, poiché la causa ed effetto della stessa la rende tale.
Volete un esempio pratico di fluidità diabetica? Eccolo servito pronto e ancor caldo nel piatto: nell’arco della giornata trovarmi preso da una glicemia > 400 mg/dl e più, con alta percentuale di acetone nell’urina e conseguente dolore alla bocca dello stomaco, nausea, cefalea e altro ancora. Reazione all’iperglicemia con un tentativo di aggiustamento tramite iniezione di qualche unità d’insulina, e nell’attesa passi resto a letto sdraiato al buio per cercare un poco di rilassamento dell’aera pelvica e ripararmi dal fastidio della luce. L’affresco diabetico appena descritto è rifacente a diversi lustri fa, ovvero tra i venticinque e trentacinque anni d’età. Ai giorni nostri i dolori riconducibili allo stomaco ed esofago sono sempre pesanti e radi, inoltre ho caricato una buona resistenza al male, anche per effetto dell’incremento della neuropatia autonomica, la quale mi rende in misura minore sensibile allo stesso.
La resistenza è la capacità fisica che permette di sostenere un determinato sforzo il più a lungo possibile contrastando il fenomeno della fatica. Il termine si riferisce tanto agli uomini che agli animali.
La prestazione di resistenza rappresenta una condizione fondamentale per praticare attività (sportive e lavorative) che richiedono sforzi non intensi, bensì prolungati.
Naturalmente quanto riportato appartiene alla sfera soggettiva ed esclusiva di ogni individuo, per quanto mi riguarda, tengo a precisare e sottolineare, come la curva dell’indolenza è stata progressiva lungo l’arco di cinquant’anni di vita con il diabete, la punta del dolore si è manifestata naturalmente all’esordio della malattia e fino ai 17/18 anni poi pian piano andata scemando.
Alcuni potranno osservare come sentire meno il dolore oggi ed aver acquisito maggiore resistenza allo stesso è vantaggioso quando si ha una malattia cronica. Io resto di tutt’altro avviso: è chiaro come il dolore va affrontato e spento perché conviverci non solo debilita e peggiora lo stato psicofisico, ma essere privi e ho tenere un segnale debole della dolenza può costituire una difficoltà per prendere in tempo le adeguate misure diagnostiche e terapeutiche.