Come complicarsi la vita con il diabete? Beh francamente è un gioco da ragazzi. Ci sono tanti modi per farlo e perdersi tra le serpentine di una gimcana e nei gorghi di un vortice marino è semplice anche quando poi diventa un casino. Il modo più semplice ad esempio sta nel controllare la glicemia, mai, fare l’iniezioni d’insulina quando capita oltre a vivere completamente in autarchia la vita con la malattia, non facendosi vedere dal medico diabetologo o qualunque esso sia.
Gli effetti naturalmente sono facilmente immaginabili: oltre a far generare rapidamente le complicanze derivate da una malattia fuori margine e strada, di là da ogni controllo, si finisce non solo per stare male ma per perdere il contatto con la realtà circostante.
Complicare la vita sembra impossibile ma invece basta poco a finire aggrovigliati da una matassa sempre più inestricabile: c’è una sorta di conflitto e dualismo tra attrazione e distacco verso i problemi e le loro conseguenze.
L’incapacità e carenza nel controllo della malattia, del diabete è solo un aspetto del problema, nella realtà e ordine delle cose sono altri i punti da mettere in evidenza e che vanno affrontati cercando di cambiare abitudini e comportamenti per riprendere il controllo e il timone della situazione.
Spesso la parola che fa da accendino di tutti i problemi e relativi casini la chiamo: fricandò, un termine ottimo in cucina, a tavola ma non nei rapporti umani se poi porta a nessuna parte. Sì perché il guazzabuglio è deleterio in condizioni critiche.
L’analisi dello stato d’animo e la comprensione dei messaggi sono di fondamentale importanza per aiutare un diabetico a superare la fase critica di accettazione della malattia. Lungo il corso degli anni di vita con questa patologia ho visto una sorta di parabola scorrermi davanti e non è solo la metafora dello scorrere del tempo e degli anni, ma una mutazione culturale intervenuta sul vissuto della malattia.
Nel passato c’era una mancanza di informazione e scambio di conoscenza rispetto ai problemi legati alla gestione quotidiana della malattia, e comunque un relazione superficiale col medico, con cui spesso se non sempre era una impresa ricavare qualche indicazione chiara e percorribile, inoltre il contenuto del linguaggio era quasi tutto gergale, anche se in lingua italiana.
E oggi se da un lato sembrano esser cambiate le cose, i rapporti con il personale sanitario, medico sono più empatici, informali e le informazioni sembrano più chiare di un tempo, in realtà esiste ancora una sorta di circolo vizioso, di continuità nel cercare di lasciare nella nebbia le informazioni, un esempio: partecipando a convegni e affini in materia sanitaria e sociale ogni cinque parole dette tre sono in italiano e due inglesi, capisco che nella vita ci si vuole dare un tono per sembrare più eruditi ma un segno di civiltà e rispetto nei riguardi altrui sta nell’essere capiti, e nella salute della persona il fattore è fondamentale. Pertanto quando ci si rapporta con gli altri cerchiamo, io per primo, di essere chiari: ne va della salute di tutti oltreché della nostra.