Una fatto che mi ha sempre contrassegnato nella vita con il diabete fin dall’esordio a un anno e otto mesi di vita è di non lamentarmi mai a causa delle malattia e in generale dei vari problemi emergenti nel corso della vita. Se mi viene chiesto il perché non sono dare una risposta secca, certa a tale proposito, poi pensandoci bene una causa c’è nascosta in me: si chiama rigetto mentale. Che roba è il rigetto mentale? Premetto che tale riflessione non ha alcun fondamento derivato dalla dottrina psichiatrica e da studi di carattere psicologico, ma da una mia osservazione maturata nel corso dello scivolare e scorrere dei tempi, degli anni.
Bene parto dal principio lo stare per tanto tempo ricoverato in ospedale durante buona parte della mia infanzia e quota dell’adolescenza mi ha fatto incontrare sempre e costantemente la triste e noiosa litania della lamentazione e dolore caricato oltre la sua reale portata e natura. Cos’è per me il dolore, no, non quello recitato o maniacale ma bensì derivato da una malattia, un trauma fisico e circostanze derivate?
La risposta e presto detto, circoscritta a quel momento dove trovi da sentire il male e reagire al medesimo urlando e soffrendo a sua causa. Ecco l’esempio per tutti da bambino si rappresentava quando ad ogni giorno di ricovero corrispondeva molti prelievi del sangue dal braccio, mano, gamba , iniezioni dolorose di cortisone nelle chiappe e altri esami diagnostici non proprio amichevoli. Come già ricordato più volte in queste pagine all’epoca, anni 80, non si impiegavano in pediatria tranquillanti e anestetizzanti anche solo locali per alleviare il dolore, la sofferenza provata nel corso dei vari esami, con strumenti molto grossolani rispetto ad oggi e aghi di metallo e di diametro molto grosso al cospetto degli attuali. Siccome la sofferenza e il dolore erano molto provanti beh quando venivano superati era per una fonte di sollievo poter godere di un attimo di pausa.
Una cosa che mi infastidiva allora come adesso, ma molto di più all’epoca, erano coloro che non smettevano mai di lamentarsi, di piangere, a forza di farmi “esperienza” nel reparto di pediatria avevo ormai capito quando c’era una ragione autentica nel soffrire e quando no. A tal proposito racconto un aneddoto: avevo otto anni e in camera con me c’era un bimbo di un anno più grande che non faceva altro che piangere dal momento della visita dei medici fin verso prima di cena e nonostante gli facessero esami e controlli molto meno invasivi dei miei, non aveva alcuna patologia cronica ma era stato ricoverato per una febbriciattola dura a sparire. Un pomeriggio cominciai a spazientirmi, siccome io ero dentro già da tre settimane e lui solo tre giorni, con i pediatri che avevano comunicato ai genitori delle dimissioni nel giro di un paio di dì, e lui continuava a frignare, a un certo punto gli chiesi: perché piangi sempre? Ormai vai a casa, stai bene, dovresti essere contento? E lui con candida certezza mi rispose: siamo in ospedale e qui si piange, sempre.
Ognuno ha la sua sfera emotiva e maschera da portare: a me un comportamento, atteggiamento che ha dato sempre e profondamente fastidio oltre a ricamatura e caricatura del dolore, del pianto è l’utilizzo strumentale del stesso, della malattia allo scopo di suscitare senso di pietà, misericordia, compassione per altri fini. E’ una parte emotiva della mia vita di malato che non avevo mai affrontato ma oggi ho voluto rompere un tabù.