Non vi nascondo che la domenica ha per me un significato particolare fin da remota epoca, la ragione è presto detta: siccome durante l’infanzia ero assoggettato a un regime alimentare o dietetico che dir si voglia molto spartano, anzi francescano per via di un diabete indomito e molto estremista di natura, con quotidiane evoluzioni a risvolto sovente drammatico: coma ipoglicemico ma anche iperglicemico con convulsioni, crisi epilettiche e chetoacidosi. Ecco allora senza tanti sofismi terapeutici se non la mono iniezione d’insulina e basta, la disperata strategia adoperata era rappresentata dalla stretta alimentare ma anche di movimento, azione fisica per via della paura costante di finire di corsa in ospedale, cosa che accadeva, purtroppo ripetutamente.
Insomma non era un bel viaggio, ma assicuro i lettori, già allora per fortuna non tutti i diabetici autoimmuni avevano manifestazioni “contro” e dualistiche: secondo le statistiche pediatriche coloro, tra cui lo scrivente, i quali avevano una glicemia ostica e dura ad essere governata erano per fortuna pochi.
Ecco per tornare all’argomento speculare di questo post domenicale ovvero del mangiare col diabete, il passaggio che desidero rammentare nell’ambito dell’angolo vintage della malattia riguarda proprio il significato intrinseco dell’evento domenicale oggi perduto. Mentre negli altri giorni della settimana facevo la mia guerriglia con la malattia, l’unico giorno concesso di tregua era costituito della domenica. Tant’è che anche in ospedale accadeva la medesima cosa: ovvero rispetto a pasti incolori, insapori, sciapi solitamente serviti in camera dal lunedì al sabato, la domenica si trovava qualcosa di meglio. Un quadratino di lasagna, una noce ti tagliatelle ad esempio, al posto del solito finocchio lesso con bietola e stracchino.
Beh la castrazione emotivo-gastronomica, e non solo, ha fatto da campo di educazione forzata e pertanto nel corso dell’evoluzione temporale e dello sviluppo biochimico, corporeo imparai a far meno di tante cose. Comunque per didascalizzare l’approccio con le feste mentre con il Natale ho mantenuto un rapporto sofferto sotto il profilo alimentare, la Pasqua la vivevo con minore sofferenza sia per il suo significato spirituale che dietetico.
Naturalmente il passato è andato e vivo il presente diversamente, ma siccome la vita rappresenta un passaggio di cui la Pasqua è simbolo marcato e sempre eterno, oggi mi sono permesso di fare una breve digressione, spero di non avervi disturbato e vi auguro una buona domenica delle Palme.