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AcetoneConosco un diabetico di tipo X il quale ha 150 anni e nonostante l’età regge bene, vive nel Caucaso e non è un caso, infatti là sono molti gli ultracentenari: sarà per l’aria buona, i cibi genuini, il moto continuo? Senz’altro l’obbiettivo dell’uomo bicentenario è ormai di prossima portata secondi gli autori ed esperti di editoria spazzatura e utopisti del momento addirittura mangiando solo fagioli ayurvedici questo traguardo è già possibile. Sarà comunque lascio a lettori di Cronaca Vera e Terapia Fasulla gli approfondimenti del caso, d’altronde si sa: da quando entrò in vigore la legge Basaglia i fenomeni visionari e autoreferenziali si sono espansi all’inverosimile. Alla fine resto sempre della mia idea: chi è sano di mente ma non di corpo sa dove andare a cercare di rimediare, mentre al contrario chi è sano di fisico ma non a livello cerebrale può cercare ovunque, anche nell’inverosimile, pur di curare la sua anima e quest’ultimo aspetto riguarda anche i malsani totali, sia mentali che corporali. (1)

Tornando a palla sulle cose concrete e del diabete oggi si parla di un tema molto toccante e pericoloso: la chetoacidosi diabetica, materia che conosco bene poiché ebbe ad accompagnare tutta la mia infanzia e adolescenza, andando a scemare dopo i venti anni nei suoi aspetti più virulenti ed esplosivi.

La chetoacidosi diabetica (o DKA) è una complicanza potenzialmente fatale, che si può riscontrare in persone affette da diabete mellito di tipo I, ma che in determinate circostanze può verificarsi anche in quelli affetti da diabete di tipo 2. Il disturbo è tipicamente caratterizzato da iperglicemia (valori superiori a 300 mg/dL), concentrazioni di bicarbonati inferiori a 15 mEq/L, e pH inferiore a 7.30, con chetonemia e chetonuria. La chetoacidosi diabetica è dovuta a una marcata carenza di insulina che comporta una risposta compensatoria dell’organismo, il quale, per la produzione di energia, passa a un metabolismo di tipo lipidico (vengono bruciati gli acidi grassi e, soprattutto, i trigliceridi) con conseguente produzione di corpi chetonici (acido acetoacetico, acetone, e acido beta-idrossi-butirrico). Il passaggio nel sangue di queste sostanze provoca una caduta del pH fino a valori di acidosi anche molto marcata. È proprio la produzione di corpi chetonici acidi che causa la maggior parte dei sintomi e complicazioni.

La chetoacidosi può essere il sintomo di esordio di un diabete non diagnosticato in precedenza, ma può verificarsi anche in soggetti diabetici noti per tutta una serie di cause, come, ad esempio, malattie intercorrenti oppure una scarsa adesione alla terapia insulinica. Di certo la scarsa aderenza alla terapia insulinica è una causa frequente di chetoacidosi diabetica ricorrente in giovani con diabete mellito di tipo 1. I sintomi tipici dei soggetti in chetoacidosi consistono in vomito, disidratazione, respirazione ansimante profonda, confusione mentale e coma. La diagnosi della condizione viene effettuata grazie all’esecuzione di esami del sangue e delle urine. La diagnosi differenziale che ne permette la distinzione da altre forme più rare di chetoacidosi è data dalla presenza di elevati livelli di glucosio nel sangue. Il trattamento prevede liquidi per via endovenosa per correggere la disidratazione, l’insulina per sopprimere la produzione di corpi chetonici, il trattamento di eventuali cause (ad esempio le infezioni) e l’attenta osservazione per prevenire e identificare eventuali complicanze.

I sintomi di un episodio di chetoacidosi diabetica in genere evolvono nell’arco di 24 ore. L’esordio si caratterizza per la comparsa insidiosa di un incremento della sete (caratteristica che prende il nome di polidipsia) e della frequenza delle minzioni (ovvero la poliuria).

A questi sintomi possono associarsi malessere inspiegabile, debolezza generalizzata, affaticabilità. Frequente anche la presenza di senso di nausea e vomito, diminuzione dell’appetito, che possono essere associate a dolore addominale diffuso. Una storia di rapida perdita di peso è un sintomo che non deve essere sottovalutato e spesso indica l’esordio di un diabete mellito di tipo 1. In soggetti diabetici già noti è possibile rilevare una storia di mancato rispetto della terapia insulinica suggerita dal curante, oppure la mancata esecuzione di alcune iniezioni per motivi vari: talvolta il paziente essendosi alimentato meno del solito ritiene infatti di compensare il minor introito di glucidi “saltando” alcune somministrazioni.

Altri sintomi e segni comprendono quelli associati alla disidratazione, tra cui una riduzione della traspirazione cutanea e della sudorazione e le alterazioni dello stato di coscienza, prevalentemente nel senso di una riduzione della coscienza associata spesso a letargia, stupor, disorientamento nello spazio e nel tempo o confusione mentale. Difficilmente la condizione evolve fino ad un coma franco, ma se il paziente e i familiari trascurano i sintomi di disidratazione e acidosi questi peggiorano invariabilmente.

Se il disturbo è scatenato da un’infezione intercorrente è frequente riscontrare malessere generale, febbre, mialgia o artralgia, dolore toracico, tosse, brividi e difficoltà respiratoria. Questi sintomi devono far pensare ad una infezione delle vie respiratorie. La disuria, la pollachiuria ed il bruciore minzionale debbono invece indirizzare verso un problema del tratto urinario. Talvolta la DKA può essere associata a dolore toracico acuto, di tipo anginoso, tachicardia con o senza sensazione di cardiopalmo, ipotensione: ciò deve far sospettare una sindrome coronarica acuta o un infarto miocardico. Nei soggetti affetti da diabete mellito non è affatto infrequente che un infarto miocardico sia silente o paucisintomatico, pertanto questa condizione dovrebbe essere sempre sospettata, in particolare nei pazienti diabetici anziani. Se durante l’esecuzione dell’esame obiettivo l’addome appare dolorabile e resistente alla palpazione si deve sospettare la presenza di pancreatite acuta, appendicite, perforazione gastrointestinale. La comparsa di vomito caffeano, per quanto inusuale, deve far pensare ad un sanguinamento di origine esofago-gastro-intestinale come causa precipitante la chetoacidosi.

Nella chetoacodosi grave il respiro diviene estremamente difficoltoso ed assume le caratteristiche proprie del respiro di Kussmaul: lento, con una inspirazione profonda e rumorosa, seguito da una breve apnea inspiratoria e quindi da un’espirazione breve e gemente.

L’esame obiettivo è molto utile per mettere in evidenza numerosi reperti anomali tra i quali l’evidente aspetto sofferente del paziente ed i segni propri della disidratazione (ridotto turgore ed evidente secchezza della pelle con associata secchezza delle muscose). Spesso è possibile evidenziare un caratteristico odore del paziente, tipico della chetosi e spesso definito come fruttato, simile a quello del profumo di pera: si tratta dell’odore acetonemico, molto evidente nell’alito del paziente che viene pertanto definito alito acetonemico. Questo alito è giustificato dal fatto che l’organismo, in sovraccarico di corpi chetonici, tenta di espellere l’acetone (sostanza estremamente volatile) attraverso la respirazione. Se la disidratazione è molto marcata si possono evidenziare i segni di compromissione delle funzioni vitali: tachicardia, ipotensione, tachipnea, ipotermia (febbre in caso di infezione). Altri segni suggestivi di chetoacidosi diabetica possono comprendere la confusione mentale, il coma ed una diffusa dolorabilità addominale. I bambini con DKA sono facilmente esposti a sviluppare edema cerebrale, che può causare cefalea, coma, perdita del riflesso pupillare alla luce e portare alla morte. Questa condizione si verifica in meno dell’1% dei bambini con DKA, ed è decisamente rara negli adulti, ma la mortalità ad essa associata è estremamente elevata (tra il 25 ed il 50%).

La chetoacidosi diabetica può essere diagnostica quando viene ad essere dimostrata la combinazione di iperglicemia, chetoni nel sangue o nelle urine e acidosi. Pur con ampie variazioni individuali, tipicamente la glicemia oltrepassa i 300 mg/dL. Solitamente si ricorre alla determinazione dell’emogasanalisi arteriosa per dimostrare l’acidosi metabolica. Questo esame richiede l’esecuzione di un prelievo ematico arterioso. Successive misurazioni, necessarie a verificare l’efficacia del trattamento adottato, possono essere eseguite ricorrendo ad un normale prelievo di sangue venoso, in quanto normalmente non vi è una marcata differenza tra il pH arterioso e quello venoso.[63][64] Il pH risulta generalmente inferiore a 7,30 ed il livello dei bicarbonati (HCO3-) è inferiore a 15 mEq/L.

Oltre agli esami sopra descritti, il campione di sangue torna utile per determinare la funzionalità renale (in particolare urea e creatinina) che potrebbe essere compromessa nell’evoluzione di questo disturbo a a causa della marcata disidratazione, e gli stessi elettroliti. Torna molto utile anche misurare il valore dei cosiddetti markers di infezione (il numero globale di leucociti e la proteina C-reattiva), e di pancreatite acuta (amilasi e lipasi). Lo stesso campione può mettere in evidenza la chetonemia e l’esame delle urine la chetonuria. Secondo diversi clinici è opportuno programmare dei controlli periodici degli esami del sangue. Questi debbono includere una glicemia, la determinazione degli elettroliti (sodio, potassio e se necessario fosforo e magnesio) ogni 1-2 ore, in presenza di un paziente gravemente compromesso, quindi ogni 4-6 ore (non appena viene raggiunta una adeguata stabilizzazione). È importante avere presente che l’iperglicemia può condurre ad iponatriemia da diluizione. Le concentrazioni di sodio nel siero tendono ad essere basse a causa dell’effetto osmotico dell’iperglicemia, che spinge l’acqua dal comparto extravascolare a quello intravascolare. Si ritiene che per ogni 100 mg/dL di glucosio, oltre i valori normali, la sodiemia si riduca di circa 1,6 mEq/L. Si deve anche ricordare che l’ipertrigliceridemia può mascherare l’iperglicemia. Similmente l’elevata concentrazione di corpi chetonici può portare ad incrementi fittizi della concentrazione di creatinina. Risulta anche opportuna la ripetizione ogni 1-2 ore dei test rapidi delle urine (stick urine) che risultano positivi per il glucosio ed i chetoni (sarebbe preferibile disporre di stick che determinano la presenza di ?-idrossibutirrato, il chetone predominante nella chetoacidosi diabetica, piuttosto che di acetoacetato). Il ?-idrossibutirrato può essere determinato anche su sangue capillare, ed alcune società scientifiche lo caldeggiano nelle loro linee guida, ma il test non è ancora estesamente diffuso. Tuttavia la sua disponibilità potrebbe rendere superflua l’esecuzione dei test di routine delle urine per i chetoni. I campioni di urine e di sangue possono essere utilizzati anche per eseguire colture (urinocolture ed emocolture) e identificare microorganismi che posso causare infezioni, spesso rappresentanti il fattore precipitante di una chetoacidosi diabetica. Per motivi analoghi è opportuno eseguire una radiografia del torace, onde escludere una possibile polmonite. Se il paziente presenta confusione mentale, disorientamento spazio-temporale, vomito ricorrente o altri sintomi deve essere sospettata la presenza di edema cerebrale e quindi diviene necessario eseguire una tomografia assiale computerizzata dell’encefalo, o alternativamente una risonanza magnetica nucleare,[62] al fine di valutarne la gravità e per escludere altre cause, come ad esempio l’ictus cerebrale. Un semplice elettrocardiogramma, ripetibile ogni 6-12 ore nelle prime fasi di ospedalizzazione, risulta estremamente utile per evidenziare un evento cardiaco, generalmente di tipo ischemico, precipitante la chetoacidosi, così come per fornire informazioni (verificando l’aspetto e l’ampiezza dell’onda T, così come l’eventuale presenza di un’onda U) su una significativa ipo o iperkaliemia.

La gestione della chetoacidosi diabetica almeno durante le prime 24-48 ore e per i casi di maggiore gravità, dovrebbe idealmente avvenire in un reparto di terapia intensiva, in considerazione dell’evolutività della patologia e della necessità di una stretta osservazione. Nelle prime ore è opportuno provvedere alla sostituzione dei liquidi e degli elettroliti persi, mirando alla riduzione della glicemia, della chetonemia e chetonuria somministrando quantità adeguate di insulina per via endovenosa. In particolare è necessario provvedere alla correzione della perdita di liquidi, alla correzione dell’iperglicemia e delle alterazioni elettrolitiche, al ripristino di valori normali di pH (normalizzazione dell’equilibrio acido-base) nonché al trattamento di eventuali infezioni e patologie concomitanti (accidenti cerebrovascolari, sepsi, trombosi venosa profonda, ecc.).

Reidratazione

La quantità di liquido che deve essere rimpiazzata dipende dal grado stimato di disidratazione. Se la disidratazione è così grave da provocare shock (una marcata riduzione della pressione arteriosa con insufficiente apporto di sangue ai diversi organi del corpo), o un livello ridotto di coscienza, è consigliata una rapida infusione di soluzione fisiologica (1 litro per i soggetti adulti, 10 ml/kg peso corporeo, in dosi ripetute per i bambini) al fine di ripristinare il volume circolante. Se il grado di disidratazione è più modesto, è possibile ricorrere ad una reidratazione con un quantitativo di liquidi calcolato sulla base della carenza di sodio e di fluidi. Anche in questo caso è consigliato ricorrere alla reidratazione tramite una infusione endovenosa di soluzione salina. I soggetti con chetoacidosi diabetica molto lieve e non associata a vomito, con solo lieve disidratazione, possono essere trattati con la reidratazione orale e insulina sottocutanea piuttosto che per via endovenosa. Anche questi soggetti debbono comunque essere tenuti sotto osservazione per identificare prontamente eventuali segni di deterioramento. Una situazione particolare e insolita è rappresentata dallo shock cardiogeno, nel quale la pressione arteriosa è diminuita non a causa di disidratazione, ma a causa della insufficienza di pompa del cuore, che non spinge efficacemente il sangue attraverso i vasi sanguigni. Questa situazione richiede l’immediato ricovero in terapia intensiva ed il monitoraggio della pressione venosa centrale (esame che richiede l’inserimento di un catetere venoso centrale in una grossa vena del corpo, ad esempio la succlavia), e la somministrazione di farmaci che sostengano l’azione di pompa del cuore e la pressione arteriosa.

Insulina

Alcune linee guida raccomandano un bolo (una dose iniziale) di insulina pari a 0,1 UI di insulina per chilogrammo di peso corporeo. Questo bolo può essere somministrato subito senza alcun problema se la concentrazione di potassio è nota ed è superiore a 3,3 mmol/l. Se la concentrazione è più in bassa, la somministrazione di insulina potrebbe portare ad una grave e pericolosa ipopotassiemia. Altre linee guida consigliano invece di ritardare la somministrazione di insulina fino a quando siano stati somministrati i primi liquidi. In letteratura esistono segnalazioni sul fatto che un bolo iniziale di insulina non cambia in meglio la gestione complessiva del disturbo.

In generale, l’insulina viene somministrata alla dose di 0,1 unità/kg all’ora per ridurre la glicemia e sopprimere la produzione di chetoni. Le linee guida differiscono su quale dosaggio sia necessario utilizzare quando la concentrazione di glucosio nel sangue inizia a ridursi: alcuni autori e società scientifiche consigliano di ridurre la dose di insulina quando la glicemia scende sotto i 300 mg/dl (16,6 mmol/l), ma altri consigliano di iniziare ad infondere soluzione glucosata al 5% oltre alla soluzione fisiologica per consentire di continuare con infusioni di quantità maggiori di insulina.

Potassio

Le concentrazioni di potassio possono variare notevolmente nel corso del trattamento della chetoacidosi diabetica, perché l’insulina diminuisce i livelli di potassio nel sangue facilitandone la penetrazione nelle cellule. Una gran parte del potassio extracellulare può essere perso nelle urine a causa della diuresi osmotica. L’ipokaliemia (una bassa concentrazione di potassio nel sangue) è spesso il risultato di un trattamento ben condotto. Tuttavia questa condizione favorisce ed incrementa il rischio di pericolose alterazioni nella frequenza cardiaca (aritmie). Pertanto, in questi soggetti, è raccomandata una attenta monitorizzazione della frequenza cardiaca, nonché la ripetuta misurazione delle concentrazioni di potassio, oltre all’aggiunta di potassio ai fluidi che vengono somministrati per via endovenosa una volta che le concentrazioni scendono al di sotto di 5,3 mmol/l. Se la concentrazione di potassio scende al di sotto di 3,3 mmol/l, la somministrazione di insulina può dover essere interrotta per consentire la correzione del deficit elettrolitico, cioè dell’ipopotassiemia.

Bicarbonati

La somministrazione di soluzione di bicarbonato di sodio per migliorare rapidamente i livelli di acido nel sangue è controversa. Le prove sul fatto che tale infusione possa migliorare i risultati rispetto alla esecuzione di una terapia standard sono scarse. Esiste invece evidenza che questa infusione, pur migliorando l’acidità del sangue, possa effettivamente peggiorare il ph all’interno delle cellule dell’organismo, aumentando così il rischio di alcune complicazioni. Il suo uso viene perciò scoraggiato, anche se secondo alcune linee guida vi si può fare ricorso in caso di acidosi estrema (pH <6,9), e si possono infondere quantità più limitate in caso di acidosi severa (pH 6,9-7,0). Nel caso il terapeuta ritenga che vi sia una indicazione all’utilizzo di bicarbonato, è consigliata un’infusione iniziale di 100-150 mL di bicarbonato di sodio alla concentrazione dell’ 1,4%. Questo trattamento può essere eventualmente ripetuto, ma con infusioni lente e prestando attenzione ai limiti di pH sopra riportati.

Edema cerebrale

L’edema cerebrale, specialmente se associato al coma, spesso necessita di ricovero in terapia intensiva, di ventilazione artificiale e di stretta osservazione. Questa complicanza è infatti gravata da una importante mortalità (21%) e invalidità (un ulteriore 21%, inteso come sequele neurologiche), particolarmente nei bambini. La somministrazione di fluidi in questi casi deve essere rallentata. Il trattamento ideale dell’edema cerebrale nella chetoacidosi diabetica non è stato chiaramente stabilito, ma il mannitolo per via endovenosa e la soluzione salina ipertonica al 3%, similmente a quanto accade nell’edema cerebrale da altre cause, sono spesso utilizzati nel tentativo di ridurre l’edema stesso. , come in alcune altre forme di edema-nel tentativo di ridurre il gonfiore cerebrale.

Infezioni concomitanti

In presenza di un processo infettivo, quale verosimile fattore associato o scatenante la chetoacidosi diabetica, è opportuno dare inizio prima possibile ad una terapia antibiotica di tipo empirico, guidata unicamente dalla verosimile sede dell’infezione, fino a quando non divengano disponibili i risultati degli esami colturali intrapresi (ad esempio emocolture oppure urinocolture) con gli associati studi di sensibilità batterica (antibiogramma).

Risoluzione

La risoluzione della chetoacidosi diabetica viene definita come un miglioramento generale dei sintomi, ad esempio la capacità di tornare a nutrirsi e idratarsi per via orale senza alcun problema, il ritorno del pH ematico entro i valori di norma (pH> 7.3), e l’assenza di chetoni nel sangue (<1 mmol/l) o nelle urine. Una volta raggiutno l’obiettivo della risoluzione della chetoacidosi, il paziente può tornare al consueto regime di somministrazione di insulina sottocutanea, e nel giro di 2-3 ore (dopo aver verificato che la glicemia e la sintomatologia del paziente si siano ormai stabilizzate, l’infusione endovenosa può essere interrotta.

Nei pazienti con sospetta chetoacidosi associata a diabete mellito di tipo 2, la determinazione degli anticorpi anti-decarbossilasi dell’acido glutammico e anti cellule delle isole di Langerhans può aiutare nella decisione se continuare la somministrazione di insulina a lungo termine o se sospendere e tentare un trattamento con farmaci per via orale, come avviene nel diabete di tipo 2. Nel caso si rilevino anticorpi è prudenziale proseguire con il trattamento di tipo insulinico.

La prognosi di questi pazienti è decisamente migliorata. Rispetto agli anni ’80 la presentazione clinica e i fattori precipitanti la chetoacidosi diabetica sono sostanzialmente sovrapponibili. Tuttavia il tasso di mortalità si è notevolmente ridotto. Prima della scoperta dell’insulina (avvenuta nel 1922) il tasso di mortalità di questi soggetti raggiungeva il 100%. Negli ultimi anni la mortalità è andata riducendosi in modo marcato, riducendosi dal 7.96% allo 0.67%. Grazie al moderno approccio alla terapia infusiva, anche in centri non specializzati la mortalità è costantemente inferiore all’1-2% per episodio. La prognosi è meno favorevole nei soggetti anziani che sviluppano gravi infezioni o malattie intercorrenti, come ad esempio infarto del miocardio, sepsi o polmonite associata ad Insufficienza respiratoria acuta. Ciò è particolarmente vero per quegli individui che debbono essere trattati in unità di cura intensiva o rianimazioni. Klebsiella pneumoniae è spesso il batterio che con maggiore frequenza conduce ad infezioni precipitanti la gravità della chetoacidosi diabetica. L’edema cerebrale rimane ancora oggi la causa più comune di mortalità, in particolar modo nei bambini e nei soggetti adolescenti. Altre varie cause di mortalità includono l’ipokaliemia grave e la sindrome da distress respiratorio acuto, così come diversi e associati stati di comorbidità (alterazioni elettrolitiche, polmonite, infezioni delle vie urinarie, setticemia).

(1) Ogni fatto riportato nel paragrafo è frutto della fantasia dell’autore.