Malgrado le delusioni, le difficoltà, le ferite che la vita le aveva inflitto, sopravviveva in lei l’ardore, il desiderio di lottare con il male che portava dentro, come una voce che riecheggia per tutto il corpo, che fa vibrare il cuore, che vince la fatica, la fame, la sete, che si sente libera. Tuttavia lei non parlava, giaceva ore e ore rinchiusa nella vecchia soffitta, a scrivere: scriveva su ogni angolo libero, su ogni materiale, su ogni foglio che riusciva a trovare, disegnava un mondo solo suo, quando impugnava la penna aveva in mano il mondo intero, perché con carta e penna puoi tracciare sentieri immaginari, dar vita a mondi infinitamente lontani, esprimere cosa senti, sfogarti, rinchiudere le emozioni sotto forma di segni scritti, chiedere scusa, perdonare, offendere, informare, dare una speranza, intrattenere, annoiare, far sognare, sconvolgere, allontanare, far arrabbiare, cambiare. E lei scriveva… faceva scorrere quella penna come fosse un pennello sulla tela, come se accarezzasse il proprio gatto, come se si spazzolasse i capelli, come se suonasse un piano in una sorta di trance artistica. Lo faceva amorevolmente e indefessamente con un’immensa passione: passava la notte insonne, a stento mangiava se ne stava lì, sola, a pensare. Era chiusa in un suo piccolo mondo dove il silenzio è più importante di qualsiasi parola, dove conta quello che senti e non cosa fai o come lo fai, dove tutto è lecito, tutto è possibile, niente è giusto o ingiusto, vero o falso. Ci sei solo tu, costruttore di mondi, il tuo grande potere creativo, la tua mente, la tua mano.
La penna, la carta, pochi strumenti per un grande fine: l’uomo non è Dio, ma in casi eccezionali può sentirsi Dio per una volta, un piccolo essere soprannaturale, un padrone, un genio, un pazzo se vogliamo. Il potere logora, il potere spezza le redini della realtà: ma qui non si parla di realtà, la scrittura fa evadere da essa, crea una realtà alternativa, una realtà solo tua, o una finzione, ma breve, fugace, illusoria, ma così dolce. E lei non aveva bisogno di altro: affidava alla scrittura ogni suo sogno, ogni sua paura, vi riponeva ogni parte di lei, e la sua anima volava, si sentiva bene, sola ma bene, e non importa se quello che scriveva veniva letto o rimaneva nascosto in qualche cassetto, lei faceva sentire la sua voce ed essa arrivava a chi voleva, perché la poesia non la scrivi, la senti, la vivi, la godi; ma lei godeva grazie allo scrivere, perché finalmente qualcosa la faceva sentire viva, perché amava, amava creare, amava emozionarsi di fronte a poche righe, amava i suoi personaggi, amava e continuava a farlo, finché la morte un giorno se la portò via.
Aveva appena terminato quello che lei definiva il migliore di tutti i suoi scritti, ma non ha importanza, aveva vissuto nel migliore dei modi a suo parere, senza rimpianti, e il suo libro della vita recava ormai la parola “fine”, con in fondo alla pagina una nota: “io scrivo finché sono viva, e quando non lo sarò più avrò comunque vissuto, e rivivrò nei miei scritti, nelle menti di chi legge e leggerà e la memoria perpetuerà il mio ricordo”.
Dorotea Meletti aveva il diabete e morì il 21 febbraio 1965, molto probabilmente a seguito di un coma ipoglicemico, all’età di 54 anni. Ringrazio Giovanna Righini per questa postuma testimonianza di sua madre.