Bollire la puntura è una tortura e se il pistone di questa s’inceppa la condanna è assicurata nella domenica incantata, assolata, in attesa di una scampagnata con “magnata”, ma per fortuna o sfortuna di insulina (la puntura) ne debbo fare una solo una: una lenta per chi come me si accontenta. E se nel bel mezzo della puntata per la magnata ti compare vomito con chetoacidosi che nevrosi! Di corsa al pronto soccorso pediatrico e via di ricovero per due settimane, un mese o più. La chetoacidosi era di moda e come, ricordava Adriano Celentano, il diabetico che non l’ha ripudiato sarà dalla Società (Italiana di Diabetologia).
La cura ti rassicura finche dura ma è dura e la sua variazione sul tema scatena in te, diabetico, il problema: la glicemia oscilla la salute vacilla? Dove sta il problema? Vatti a fare un giro per almeno trenta minuti al giorno e lo risolvi.
Per noi giovani della metà dell’altro secolo, la bicicletta era il mezzo di trasporto principe. Una sportiva con i cambi, poteva considerarsi un lusso per pochi. Il motorino, sogno proibito di tutti gli adolescenti, era accessibile solo agli apprendisti –che avevano lasciato la scuola dopo le elementari per andare a bottega – o ai figli di papà. A pochi, infatti, era data la disponibilità economica per mantenere dei veicoli a motore.
Ricordo, piccino, che venni portato d’urgenza al pronto soccorso pediatrico per una ipoglicemia si di una carretta trainata dalla bicicletta. Altri tempi anche di percorrenza, si penserà chissà quanto da casa di allora al Gozzadini la distanza era di 5 chilometri: beh si impiegò 15 minuti, cose da fantascienza.
Era quindi normale trovare gruppi folti di adolescenti ciclisti scorrazzanti per le strade dei paesi. Il traffico dell’epoca (Bologna), risibile se paragonato a quello odierno, permetteva di organizzare persino delle corse improvvisate per le vie del paese o tra un paese e l’altro.
Frequenti erano, poi, le gite in campagna, spesso organizzate dalle parrocchie e guidate da curati spavaldi e incuranti dei pericoli, il maggiore dei quali era costituito dalla lunga tonaca che intralciava i loro movimenti e rischiava di finire tra i raggi.
Le ragazze, alle quali spesso veniva proibito l’uso degli scandalosi pantaloni, imparavano ben presto a guidare con una mano sola. L’altra era occupata a tener giù la gonna lungo le gambe. Inutile dire quanto noi maschi facessimo il tifo per il vento!
La bicicletta, però, non era solo legata alle attività ludiche dei ragazzini. Essa era anche il mezzo di trasporto di chi andava a lavorare e, volente o nolente, era costretto a sobbarcarsi anche viaggi di parecchi chilometri, mattina e sera, con ogni tempo e in ogni stagione. A tal proposito amo ricordare il mio medico curante sempre presente e disponibile a venire a far visita portato dalla sua bicicletta e senza tanti se e ma (tanto per essere chiaro)
Il ricordo va a quegli uomini intabarrati, spesso con le manopole del manubrio dotate di guaine paragelo in pelle di coniglio rovesciata, che pedalavano lentamente, d’inverno nella nebbia e nell’oscurità su strade non asfaltate, piene di buche e senza illuminazione. Viaggi duri e meno romantici di quelli che facciamo noi sulle nostre splendide bici con cambio, magari in pista ciclabile.
Ecco in questa domenica, in questo primo marzo a cui diamo il benvenuto, aprire una breccia sul passato, con un occhio particolare alla vita vissuta e alle avventure trascorse col diabete (tra il serio e il faceto) serve solo a dire: per fortuna è passata!