Pubblichiamo il riassunto di uno studio e riflessione disponibile su Pubmed, curato dal dr. Nadir Askenasy medico diabetologo e direttore del centro ricerche nel campo delle terapie cellulari al Schneider Children’s Medical Center of Israel.
L’attuale approccio prevalente al diabete di tipo 1 è l’eliminazione del potenziale patogeno con la terapia immunosoppressiva, un metodo intuitivo al fine di rallentare la progressione della malattia dalla riduzione degli oneri patogeni. Nonostante primi risultati promettenti in modelli di roditori, vi è stata poca efficacia della maggior parte delle strategie di linforiduzione in soggetti umani. La nostra analisi suggerisce che linfopenia è il denominatore comune delle terapie immunosoppressive inefficaci: il rimbalzo Immune da linfopenia è associato per se con una maggiore suscettibilità alla reattività immunitaria, compresa la ricaduta di autoimmunità. Inoltre, l’omeostasi immunitaria e di auto-tolleranza non viene ripristinata. Queste considerazioni sollevano la seguente domanda: qual è il grado consentito di terapia immunosoppressiva che non suscita autoimmunità ricorrente? Più efficaci strategie terapeutiche includono una mirata eliminazione delle cellule patogene, preferibilmente nelle isole pancreatiche e linfatiche regionali utilizzando un marker T selettivo di attivazione delle cellule, rieducazione e rimodellamento delle risposte effettive.