Una parola sulla bocca di tutti non è sinonimo di verità, sempre più volte i tormentoni concettuali, i luoghi comuni e modi di dire sono la riprova di scarsezza di argomentazioni e allora si può avere l’effetto “pappagallo”: ripetere la stessa frase e periodo una quantità spropositata di volte e occasioni. All’interno del novero di condizioni si colloca il diabete: malattia sociale sì e di converso popolare. E nonostante i distinguo tra tipi per praticità e convenienza si fa di tutta un’erba un fascio.
Siccome il diabete è finito per essere, secondo il vernacolo popolare e anche per un parte di noi, una malattia da parodia, accade che quanti ne vengono colpiti in maggiore età finiscono per avere una certa ritrosia a parlarne o addirittura a non farne menzione proprio. Ecco una delle ragioni per cui si aggrega poco dietro il cartello diabete: gli unici a riuscirci sono i genitori dei bimbi e ragazzi con diabete tipo 1, per gli altri c’è spesso e volentieri una sorta di reazione simile agli alcolisti anonimi: ci si parla, fa autocoscienza in piccoli gruppi o, come oggi, outing, sfogo nei social network, poi più niente.
Ecco il diabetico fa proprio il motto delle femministe a cavallo tra la fine degli anni 60 e inizio 70: il diabete è mio e me lo gestisco io: perché? Semplice: nel 99% del tempo di vita si è lasciati soli a gestire problemi, dubbi e difficoltà, quindi l’arte d’arrangiarsi diventa una necessità. Si dirà: c’è il telefono, la mail per poter contattare il proprio diabetologo, medico. Oltre che essere armati di santa pazienza e tempo servono falangi dotate di ritmo per la tastiera del cellulare, poiché saranno innumerevoli le chiamate fatte prima di trovar libero e avere risposta.
Poi l’altro aspetto frustrante di tutta la faccenda è dato dal essere, sentirsi capiti nel contesto delle problematiche scaturite dalla malattia. Una dimensione tutta da scoprire proprio a cominciare da chi condivide con noi la vita (coniuge e analoghi).
Tutti processi esistenziali il cui esito finale ci porta a tenerci quanto proviamo, sentiamo e somatizziamo dentro di noi. Sì perché alla fine il tutto è una noia: puoi dirlo una volta o due ma poi in sintesi il risultato provoca la fuga, un esempio? Beh una volta per ragioni di infortunio mi feci accompagnare dalla mia compagna alla visita per il diabete: non ci furono più repliche perché manifestò proprio l’insopportazione per tutta la trafila intrinseca all’evento (della serie: torno solo in caso di grave necessità).
Il diabete da solo non fa ne l’estate ne l’inverno del carattere e personalità: uno soggetto è lunare o solare a prescindere dalla malattia e pertanto porta con sé tali caratteristiche.
Di mio trovo che, per trattare e conversare di malattia occorre sempre un certo tatto: mettere in piazza cose delicate non è sinonimo di senso di responsabilità, gli argomenti vanno collocati in ambiti ove posso trovare idonea accoglienza.
Ogni sintomo, condizione fisica e malattia appartiene all’esclusiva sfera personale e di questo ne dobbiamo sempre tenere da conto: social e altri patchwork analoghi a parte.