Un simposio internazionale traccia la rotta per il futuro della cura del diabete di tipo 1, esplorando farmaci innovativi come le GKA, i GRA, gli SGLT2i e gli agonisti delle incretine per migliorare il controllo glicemico e prevenire complicanze gravi.

Il diabete di tipo 1 è, da sempre, una sfida ad alto tasso di complessità. Non basta l’insulina. Non basta il monitoraggio costante. Non bastano nemmeno le tecnologie più avanzate. Oggi, più che mai, serve un cambio di paradigma.

Ed è proprio questo lo spirito che ha animato la sessione dedicata alle terapie aggiuntive per il diabete di tipo 1, tenutasi lunedì 23 giugno al McCormick Place Convention Center, durante l’85ª Sessione Scientifica dell’American Diabetes Association.

Sotto i riflettori, alcune delle menti più brillanti della diabetologia internazionale hanno fatto il punto su un tema urgente e troppo spesso trascurato: l’ampliamento delle opzioni terapeutiche per chi vive con il diabete di tipo 1, una condizione in cui l’insulina è necessaria, ma non sempre sufficiente.


Terapie limitate, bisogni immensi

«Nonostante le innovazioni nella gestione del diabete di tipo 2, esiste solo una terapia non insulinica approvata dalla FDA per il tipo 1: la pramlintide», ha dichiarato la professoressa Klara R. Klein dell’Università della Carolina del Nord. Un panorama terapeutico desolante, se paragonato all’arsenale disponibile per il tipo 2.

Tuttavia, la scienza non dorme mai. E se l’insulina resta la pietra angolare, nuove molecole si affacciano all’orizzonte come alleate complementari, in grado di migliorare il controllo glicemico, prevenire le complicanze e, perché no, restituire un po’ di leggerezza alla vita quotidiana delle persone con diabete.


GKA: la promessa orale che non punge

Nel suo intervento, la Dott.ssa Klein ha illustrato i dati preliminari sulla cadisegliatina, un attivatore della glucochinasi (GKA), attualmente in fase di sviluppo. I GKA agiscono direttamente sul metabolismo del glucosio, favorendone l’assorbimento e stabilizzando i livelli ematici.

Ma la vera sorpresa? Potrebbero farlo senza aumentare il rischio di ipoglicemia, anzi, proteggendo da essa. Un colpo da maestro in un contesto dove l’ipoglicemia resta una delle paure più paralizzanti per chi vive con il T1D.


GRA: l’arma intelligente contro il glucagone

Il professor Schafer Boeder, dell’Università della California a San Diego, ha invece puntato i riflettori sul volagidemab, un antagonista del recettore del glucagone (GRA). Questo anticorpo monoclonale, ancora in fase di sviluppo, si lega al recettore del glucagone bloccandolo, impedendo così picchi glicemici improvvisi.

Il potenziale è notevole: miglioramento del controllo glicemico, riduzione del fabbisogno insulinico e – udite udite – minor rischio di chetoacidosi diabetica (DKA), una complicanza tanto insidiosa quanto letale.


SGLT2 e GLP-1: il multirischio che non fa paura

Nel suo intervento, Bruce A. Perkins, docente all’Università di Toronto, ha parlato degli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2). Nonostante le potenzialità, queste molecole sono state finora frenate dal rischio di DKA.

Ma la ricerca continua a indagare modi più sicuri per integrare gli SGLT2i nel T1D. Allo stesso modo, Justin Gregory, pediatra alla Vanderbilt University, ha discusso degli agonisti GLP-1 e GIP/GLP-1, già protagonisti nel tipo 2, che si stanno affacciando con cautela anche sul fronte tipo 1, con promettenti risultati metabolici e cardiovascolari.


Verso una terapia su misura

I messaggi chiave emersi dalla sessione sono chiari:

  • L’insulina è fondamentale, ma non può fare tutto da sola.
  • Le terapie aggiuntive possono ridurre i picchi e le cadute glicemiche.
  • È possibile migliorare la qualità della vita evitando un eccessivo carico insulinico.
  • Un approccio multifarmaco potrebbe essere la nuova frontiera anche nel T1D, così come già avviene nel T2D.

Come sottolineato dal Dott. Boeder: «Serve un’evoluzione che vada oltre il glucosio. Dobbiamo affrontare il rischio cardiovascolare, il sovrappeso, le complicanze renali. È ora di pensare al paziente, non solo ai suoi numeri».


Conclusione: il futuro è più vicino

Il messaggio che esce forte e chiaro da Chicago è che non siamo più nel deserto terapeutico. Le molecole ci sono, i dati iniziano a emergere, e l’urgenza clinica è innegabile.

Siamo all’alba di un nuovo approccio integrato al diabete di tipo 1. Più rispettoso della persona, più efficace nel prevenire danni, più leggero nel quotidiano. Un’era in cui la speranza prende forma farmacologica.


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