Dall’Italia una scoperta che potrebbe rivoluzionare la prevenzione del diabete di tipo 1: l’anticorpo Ebrasodebart blocca il segnale di morte delle cellule beta, preservando la funzione pancreatica.

In un tempo in cui la scienza rincorre instancabilmente risposte alla malattia autoimmune più complessa e crudele dell’infanzia – il diabete di tipo 1 – una nuova speranza si affaccia dal panorama della ricerca italiana e internazionale: un anticorpo monoclonale umano, battezzato Ebrasodebart, potrebbe cambiare le sorti della prevenzione del T1D agendo direttamente sul cuore del problema, il recettore TMEM219.

A guidare questa rivoluzionaria scoperta è il professor Paolo Fiorina, tra Milano e Boston, con un team d’élite composto da ricercatori italiani e internazionali. Lo studio, presentato in occasione delle sessioni scientifiche dell’American Diabetes Association, parte da una premessa tanto elegante quanto efficace: bloccare il segnale di morte delle cellule beta pancreatiche, le uniche produttrici di insulina, prima che l’autoimmunità le annienti.

TMEM219: Il nuovo “interruttore della morte”

TMEM219 è un recettore transmembrana, identificato di recente come un attivatore dell’apoptosi (morte cellulare programmata) nelle cellule beta del pancreas, bersaglio privilegiato nel diabete di tipo 1. La sua attivazione da parte di molecole come IGFBP3 o di sieri di pazienti con T1D scatena un meccanismo distruttivo, contribuendo alla progressiva perdita della capacità dell’organismo di produrre insulina.

Ebrasodebart: un alleato molecolare delle cellule beta

Il nuovo anticorpo monoclonale, Ebrasodebart, di tipo IgG4 umano, è stato progettato per bloccare TMEM219. In vitro, il trattamento con Ebrasodebart ha ridotto significativamente l’apoptosi delle cellule beta esposte a IGFBP3 e a sieri di pazienti diabetici. Ma il vero trionfo arriva in vivo, nei modelli murini.

I topi NOD, predisposti geneticamente allo sviluppo spontaneo di T1D, trattati con Ebrasodebart a 10 settimane d’età, hanno mostrato una prevenzione dell’insorgenza della malattia nel 90% dei casi fino alle 24 settimane. Un risultato notevole, che si accompagna a un insulite normalizzata (cioè l’infiammazione delle isole pancreatiche ridotta) e a una risposta autoimmune significativamente attenuata.

Ancora più sorprendente è stato l’esito nei modelli NOD SCID: topi immunodeficienti che ricevono cellule immunitarie da altri esemplari. Coloro che hanno ricevuto splenociti da topi trattati con Ebrasodebart, rimasti normoglicemici, non hanno sviluppato diabete; al contrario, quelli che hanno ricevuto cellule da topi iperglicemici hanno progressivamente manifestato la malattia.

Immunità preservata, ma indirizzata

Pur non alterando in modo evidente il profilo immunofenotipico (ovvero la composizione generale delle cellule immunitarie), Ebrasodebart ha modulato la memoria immunitaria: le cellule T CD4+ e CD8+ hanno mostrato minore reattività verso i peptidi pancreatici, sintomo che l’attacco autoimmune può essere disinnescato prima che si compia il danno irreversibile.

Una cura o una prevenzione?

Il potenziale di Ebrasodebart è chiaro: non si tratta ancora di una cura, ma di un’immunoterapia preventiva per chi è a rischio – ad esempio, i familiari di primo grado di pazienti con T1D, o coloro che mostrano autoanticorpi in fase preclinica. Una frontiera vicina e concreta, che potrebbe affiancarsi alle strategie già in fase avanzata, come Teplizumab o i vaccini immunomodulanti.

Ricerca italiana, cuore globale

Il lavoro, coordinato da Fiorina insieme a una squadra straordinaria che include Francesca D’Addio, Lisa M. Olson, Vera Usuelli, Monica Zocchi e tanti altri, è il risultato di una collaborazione tra centri d’eccellenza in Italia (tra cui Milano) e partner negli Stati Uniti. Un chiaro esempio di come la ricerca biomedica italiana possa contribuire in modo significativo alla medicina di precisione globale.

Conclusioni

La scoperta dell’efficacia dell’anticorpo Ebrasodebart nel bloccare TMEM219 e prevenire il diabete di tipo 1 nei modelli animali apre le porte a nuove terapie preventive, potenzialmente capaci di salvare milioni di vite da una malattia cronica e complessa. Un passo avanti, non solo nella scienza, ma nella speranza.


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