L’uso crescente di dispositivi medici indossabili, trainato in gran parte dal diabete, sta generando una nuova emergenza ambientale: quella dei rifiuti sanitari non regolamentati. L’OMS lancia l’allarme, ma le soluzioni sono ancora poche e frammentarie.

Il futuro della salute produce scarti: allarme OMS sui rifiuti biomedicali

Mentre la medicina corre verso l’innovazione, tra sensori glicemici, pompe d’insulina, cerotti intelligenti e dispositivi salvavita sempre più miniaturizzati, un altro dato preoccupa i ricercatori dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: entro dieci anni, la quantità di rifiuti sanitari generati dai dispositivi medici indossabili crescerà del 50% a livello globale.

A trainare questo boom sarà soprattutto una malattia: il diabete, e con esso una galassia di accessori monouso e parti di ricambio, come i CGM (monitor glicemici continui), i set d’infusione, le patch adesive, le cartucce e i sensori esausti. Tutti rigorosamente realizzati con materiali misti non riciclabili: plastica, gomma, metallo, microcomponenti elettronici. Una bomba ecologica silenziosa.

Una discarica nel cassetto: l’invisibile montagna dei rifiuti sanitari

Chi vive con una patologia cronica come il diabete di tipo 1, sa bene quanta plastica passa tra le mani in un mese: sensori da sostituire ogni 7-14 giorni, cannule monouso, contenitori per l’insulina, batterie, cerotti, pellicole protettive. Il tutto senza un protocollo chiaro per il corretto smaltimento.

Oggi, nella maggior parte dei Paesi, questi rifiuti finiscono nel sacco dell’indifferenziata, o peggio ancora nella plastica comune, aggravando la crisi ambientale legata al consumo di materiali medicali. Eppure, a differenza delle siringhe o dei farmaci scaduti, non esiste una normativa unificata per la gestione dei rifiuti da dispositivi indossabili a uso domestico.

Diabete e sostenibilità: quando la cura impatta il pianeta

Il paradosso è evidente: più la medicina diventa precisa, personale e digitale, più genera scarti non biodegradabili. Il settore del diabete, che rappresenta la punta avanzata di questa rivoluzione sanitaria, ne è anche la vittima (e complice) principale. Un report del Lancet ha stimato che un solo paziente con diabete di tipo 1 può produrre fino a 15 kg di rifiuti biomedicali l’anno, senza contare le confezioni.

Ma quali sono le alternative? È possibile conciliare la cura della persona con la cura del pianeta?

Soluzioni all’orizzonte: riciclo, ritiro, responsabilità estesa del produttore

Le risposte, seppur timide, stanno iniziando a emergere. Alcune aziende produttrici stanno sperimentando programmi di ritiro dei dispositivi usati, soprattutto negli Stati Uniti e in Nord Europa, dove la cultura del riciclo è più radicata. Si parla anche di dispositivi “green by design”, ossia creati fin dall’origine per essere smontati, riciclati o prodotti con plastiche biodegradabili.

Un’altra strada è quella della responsabilità estesa del produttore (EPR), ovvero l’obbligo per le aziende di farsi carico dello smaltimento dei loro prodotti una volta esauriti. Ma al momento, solo pochi paesi lo prevedono.

Nel frattempo, l’OMS sollecita i governi a sviluppare linee guida per il corretto smaltimento domestico dei dispositivi biomedicali, e invita le aziende a integrare criteri ambientali nelle strategie di sviluppo.

La salute non può essere nemica dell’ambiente

La tecnologia ci sta aiutando a vivere meglio e più a lungo, ma non possiamo più ignorare il rovescio della medaglia: la cura quotidiana genera un flusso continuo di rifiuti speciali, spesso invisibili, che rischiano di minare la salute del pianeta. È tempo di integrare la sostenibilità ambientale come parametro essenziale nella progettazione dei dispositivi sanitari, così come oggi lo è la sicurezza o l’efficacia.

D’altra parte, se prendersi cura della salute significa proteggere la vita, allora ogni gesto, ogni dispositivo, ogni sensore dovrebbe far parte di una cura più grande: quella verso la Terra.


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