Tra metriche oggettive del CGM e percezioni soggettive del paziente, la sfida è capire quanto pesa davvero l’ipoglicemia. Un confronto acceso tra esperti alla convention dell’ADA per ridefinire la gestione clinica.
L’ipoglicemia: una parola piccola, ma un problema enorme per chi convive con il diabete. Non è solo un numero su uno schermo o un valore sotto soglia: è tremore, confusione, paura. E a volte, è silenzio. Silenzio perché non tutti i pazienti la riconoscono, o la raccontano. Ma come si può quantificare qualcosa di tanto soggettivo? È proprio questo l’interrogativo su cui si confronteranno sabato 21 giugno, dalle 15:15 alle 16:15, alcuni tra i massimi esperti internazionali, nella sessione “Qual è il modo migliore per misurare il peso e la gravità dell’ipoglicemia nelle persone affette da diabete?” al McCormick Place Convention Center, durante le sessioni scientifiche dell’American Diabetes Association (ADA).
Un problema antico, una sfida moderna
“L’ipoglicemia è uno degli aspetti più complessi della gestione del diabete,” afferma il dottor Gregg Simonson, Direttore di Strategia, Innovazione e Partnership presso l’International Diabetes Center. “Ma solo una comprensione approfondita e misurabile del suo peso può portare a una reale prevenzione e trattamento.”
Il cuore del dibattito ruota attorno a due visioni contrapposte: da un lato, i dati oggettivi del monitoraggio continuo della glicemia (CGM); dall’altro, il racconto soggettivo dei pazienti, che vivono in prima persona ogni calo di glucosio.
Tempo al di sotto del range: l’indicatore più affidabile?
Simonson presenterà le evidenze a favore del “tempo al di sotto del range” (time below range, TBR) – in particolare <54 mg/dL per almeno 15 minuti – come la misura più precisa per stimare il carico ipoglicemico. Questa metrica, secondo il ricercatore, è particolarmente utile anche in contesti regolatori, dove rappresenta un criterio standardizzato per valutare nuovi farmaci e tecnologie.
“Il CGM offre parametri chiari, visibili, e condivisibili tra pazienti e medici,” sottolinea Simonson. “I dati raccolti attraverso dispositivi indossabili, sincronizzati su cloud e cartelle cliniche elettroniche, possono fornire un quadro complesso ma navigabile dell’andamento glicemico.”
Questi dati, oltre ad essere predittivi di eventi gravi, possono anche attivare avvisi personalizzati in tempo reale, aiutando a prevenire situazioni pericolose.
Ma i numeri non bastano
Tuttavia, Alexandria Ratzki-Leewing, ricercatrice presso la University of Maryland, porterà sul tavolo del dibattito una visione complementare, evidenziando l’importanza degli eventi ipoglicemici percepiti dal paziente.
“L’esperienza dell’ipoglicemia è spesso più traumatica del valore che la definisce,” afferma la studiosa. “Le metriche sono essenziali, ma non esauriscono il vissuto della persona.”
Anche la definizione ufficiale dell’ADA distingue tra livelli:
- Livello 1: <70 mg/dL
- Livello 2: <54 mg/dL
- Livello 3: evento grave che richiede l’intervento di un’altra persona.
E proprio su quest’ultimo punto – l’ipoglicemia grave (livello 3) – tutti gli esperti sono d’accordo: va assolutamente evitata. Ma la domanda resta: come misurare, con precisione e umanità, tutto quello che c’è nel mezzo?
Il ruolo della voce del paziente
A dare voce a chi vive quotidianamente con la paura del “crollo glicemico” sarà Eva Kathmann, Senior Patient Liaison presso la Mayo Clinic. Il suo intervento punterà a definire nuovi strumenti per raccogliere e comprendere i dati soggettivi: sintomi, contesto, frequenza e impatto sulla qualità della vita.
“Un paziente può avere un TBR perfetto, ma vivere nell’ansia costante di una crisi imminente. Oppure, non percepire nemmeno l’ipoglicemia, un fenomeno noto come ipoglicemia asintomatica, con rischi potenzialmente fatali.”
Il dialogo tra numeri e narrazione diventa così fondamentale: per migliorare l’aderenza terapeutica, affinare la personalizzazione delle cure, e soprattutto, per far sentire il paziente al centro – non al margine – della propria terapia.
Un confronto cruciale per la pratica clinica
Il confronto tra metriche oggettive e parametri soggettivi è tutt’altro che sterile: ha implicazioni concrete nella pratica medica, dalla scelta del sensore CGM più adatto, fino alla gestione psicologica del paziente. Se un valore numerico può essere automatizzato, la cura reale resta un’arte fatta di ascolto e di comprensione.
Come ha ricordato il dott. Simonson, “la misurazione ottimale dell’ipoglicemia non è un fine, ma un mezzo per migliorare l’intervento clinico e ridurre i rischi.”
E allora, quale sarà il metodo migliore? La risposta non arriverà da un solo grafico né da una sola testimonianza, ma dal dialogo continuo tra scienza, tecnologia e umanità. Un dibattito aperto, che questo incontro all’ADA 2025 contribuirà a rendere sempre più concreto.
Hashtag per i social:
#Ipoglicemia #Diabete #CGM #MonitoraggioGlicemico #ADA2025 #TempoSottoRange #VitaConIlDiabete #TecnologiaMedica #EmpatiaClinica #SanitàDigitale