Mi salutate ogni giorno, altrettanto vi saluto, mi fate delle domande su cose belle e brutte, non vi dovete annoiare, io sono questo, voi non lo dovete più scordare. Parlo poco ascolto molto questo non vuol dire che me ne frego. Abbiate un po’ di pazienza io sono questo, nel discorso mi tuffo quando trovo me stesso, forse sono deconcentrato, forse mi manca la voglia, continuo ad essere così perché è di mia natura ma questo non vuol dire che non ho cultura, sono pensieroso, molto premuroso. I problemi che hanno tutti ce li ho anch’io, a differenza di loro che riescono ad allontanarli. Per me queste cose non passano mai, esistono fianco a me anche quando cerco di scherzare un po’, è la mia natura e di più non si può.
Oggi il nome che va per la maggiore è Paco: Paco Raban, Paco d’Alcatraz ecc., io il paco non lo do lo ricevo, forse è per questa genetica ed ereditaria presidisposizone/condizione che me ne frego di certe cose e faccende, stati d’animo e comportamenti, luoghi comuni, avverbi e proverbi. Forse è anche a causa di questa genesi che per molti anni me ne sono fregato del diabete. D’altronde la figura della macchietta umana non l’ho mai gradita: della marionetta o manichino del diabetologo di turno nelle cui mani sarei finito per diventare un fachiro appuntellato d’aghi nelle mani e braccia per testare all’infinito la curva di Pareto applicata alla glicemia lungo una corsia d’ospedale o ambulatorio con destinazione obitorio. Invece me ne sono fregato e anche se dicono i più solerti biografi e scrittori di malattie e antropologia del malato che il diabete ti consuma dentro piano piano o velocemente: dipende; beh francamente me ne sono altamente sbattuto fino a un certo punto. Ovvero fino al punto in cui non volevo perdere vista e reni e allora in quell’istante ho cominciato e mettermene, ma nel giusto modo, ovvero senza voler diventare schiavo della malattia. Dite la vostra che io dico la mia: è questo il moto secondo me da mettere alla porta d’ingresso degli ambulatori di diabetologia e delle rispettive associazioni. Poiché ciascuno ha la sua dimensione poetica, metrica con il diabete ed è completamente inutile stare a guardare cosa fa il vicino con la glicemia più verde, copiare e incollare non serve.
Me ne frego quel che basta per non andare in esaurimento: mentale e fisico, poiché più te ne metti e più ci rimetti; più ti incaponisci e più non ne esci e ci capisci. Ecco essere responsabili vuol dire non farsi condizionare da chi sta lì non per sostenerti ma solo per romperti o spaventarti. Questo non serve, non ci serve. Non ci servono i falsi maestri del: si fa così; te lo avevo detto io. Mentre avremmo bisogno di persone che ci fanno ragionare senza indicativi perentori, ma con un semplice ventaglio di possibilità, probabilità da valutare e lavorarci sù per scovare la strada migliore da intraprendere.
Comincia settembre e tra qualche giorno faccio i 54 anni d’età che, combinati con 52 di diabete, fanno un bel condimento. Lungi da me fare bilanci a tutto campo, sono qua a scriverne e già questo mi basta e avanza. Ma le date hanno una altro significato: servono a ricordare i passi compiuti e quelli da fare per ampliare la conoscenza, crescita e maturità personale sino alla fine certa anche se non ci è dato sapere quando è.
L’elemento che più mi piace del mese in cui sono nato è lo stare ancora in estate anche se verso l’autunno a simboleggiare nel ciclo di vita contadino (passato) il periodo della vendemmia e del raccolto, il ringraziamento con feste popolari, insomma una fase bella del calendario lunare. Oggi tali tradizioni restano solo a uso e consumo del turismo da fine settimana, ma a me piace rammentarle per la loro vera e autentica radice.
Ecco anziché scrivere di aridi grafici e algide cifre, di glicemia e affini oggi ho dissertato di un elemento molto più umano e profondo: del vivere tra le lancette del tempo senza rimanere tagliato a fette. Benvenuto Settembre!