Spesso l‘argomento ricorrente in tutti gli spazi informativi e di divulgazione sul diabete riguarda l’accettazione della malattia al suo esordio da parte dell’interessato, con modi e comportamenti diversi che variano a seconda dell’età del suo inizio. La questione invece poco o niente messa in evidenza ha a che fare con l’accettazione della malattia da parte dei familiari e affini, in particolare la più temuta: quella del genitore. Scrivo oggi proprio di questo e non in astratto. Il rifiuto della malattia da parte di un genitore è vecchio come il mondo e la letteratura è ricca di testimonianze e vicende noto meno note a tal proposito. Nel mio contesto familiare d’origine colui che ebbe fin dall’esordio del mio diabete un forma mai dichiarata di avversione verso la condizione era mio padre. La ragione è presto detta: la sua fobia per qualsiasi cosa avesse a che fare con malattie di ogni genere e natura era tale che ora a più di settant’anni d’età è talmente terrorizzato all’idea di stare cadere e farsi del male che non esce più di casa. Non solo ma contestualmente alla comparsa del diabete la sua reazione avversa fu tale da farlo cominciare a bere, e a non assumersi determinati passaggi di responsabilità materiale e morale nei confronti dei suoi figli e della sua famiglia. Tutta andava bene fin quando mia madre era ancora viva, poiché era lei l’unica persona che si assumeva tutte le problematiche della famiglia.
Questo primo passaggio sul tema dell’accettazione o meno della malattia del figlio da parte dei, del genitore o comunque dei familiari è l’occasione per mettere in luce un altro aspetto poco conosciuto della galassia diabete, in particolar modo quando si parla del tipo 1 diagnosticato da bambini e adolescenti, ovvero di quella fascia di famiglie che sono valutate in grado di accudire e seguire i propri figli all’apparenza, ma poi sotto il profilo relazionale le cose così non stanno. Ai tempi miei mancavano tutta una serie di servizi sociale per la famiglia, e nonostante oggi siano formalmente presenti permangono lo stesso delle lacune evidenti nel saper cogliere i punti critici presenti all’interno del tessuto sociale in cui viviamo.
Ma senza scomodare studi di ricerca a carattere sociologico basterebbe a mio avviso molto meno e qualcosa d’immediato per cogliere il grado di responsabilità, amore e consapevolezza dei problemi da parte genitoriale: già quando avviene la fase d’ingresso nelle strutture specialistiche della pediatria i medici e operatori dovrebbero essere in grado di capire se e come la famiglia è in grado di supportare o meno un figlio con il diabete. D’altronde la patologia stessa richiede determinati passaggi da cui si deduce se un padre e una madre sono in grado di gestire la situazione.
Sull’argomento sono molto sensibile poiché i danni e le difficoltà subite da un essere umano durante la fase delle crescita e dello sviluppo lasciano dei solchi indelebili nella sua memoria e personalità, tali da segnare profondamente il suo futuro a volte condannandolo a vivere con dei complessi e paure duri da superare. E siccome sotto questo profilo ci sono passato in prima persona vorrei tanto uscire dal sogno disneyano e far calare l’ancora nel nostro tempo per dare più forza e energia alle nuove generazioni.
“I buoni genitori danno ai figli radici e ali. Radici per sapere dove è casa loro, ali per volar via e mettere in pratica ciò che gli è stato loro insegnato.”