Prof. Giorgio Sesti
Prof. Giorgio Sesti

La paleopatologia, una disciplina a cavallo tra Sherlock Holmes e Dr. House, sale sul podio della Società Italiana di Medicina Interna SIMI

La lettura inaugurale del 124° Congresso Nazionale della Società Italiana di Medicina Interna, che si terrà a Rimini dal 20 al 22 ottobre, è infatti affidata a Francesco Maria Galassi, professore associato di Antropologia all’Università di Lodz (Polonia) e professore a contratto di Anatomia all’Università di Bologna campus di Ravenna. Medico di formazione, Galassi si è sempre dedicato alla ricerca in campo antropologico e paleontologico, allo studio delle malattie del passato e alla storia della medicina. Sue le scoperte dei primi casi documentati di ictus e di gigantismo della storia. Ha diagnosticato una lesione gottosa sul ‘ditone’ di Federico da Montefeltro, duca di Urbino e smantellato la tesi che Giulio Cesare fosse epilettico, in piedi da venti secoli. “La paleopatologia – commenta il professor Giorgio Sesti, presidente della Società Italiana di Medicina Interna – è una scienza che può apparire lontana dalla moderna medicina, mentre al contrario è una disciplina molto attuale che ci aiuta a comprendere l’evoluzione fisiologica e patologica dell’uomo, l’impatto dei mutamenti climatici e ambientali sul corpo umano e a fornire preziosi insegnamenti su come combattere pandemie dovute ad agenti infettivi, sulla base delle esperienze raccolte nei secoli, quando l’umanità era ciclicamente esposta alle a epidemie prodotte da virus e batteri”.

“Nel nostro Paese – afferma Francesco Maria Galassi – la medicina evoluzionistica e la paleopatologia sono tematiche poco note al grande pubblico. Eppure si tratta di discipline molto importanti per lo studio delle malattie, per capire come si presentavano migliaia di anni fa, dal punto di vista del background e genetico. Noi non ci limitiamo a fare una fotografia di come queste malattie si presentavano in passato, ma studiamo anche come si sono

evolute nel tempo. E questo aspetto è molto interessante non solo per gli antropologi, ma soprattutto per i medici. Lo abbiamo visto anche in occasione dell’ultima pandemia, quando larghi settori della comunità scientifica avevano dimenticato cosa fosse una zoonosi, una patologia che ha origine nell’animale e poi si sposta alla specie umana, facendo quel salto di specie che può dare origine a fenomeni pandemici. Seguendo i patogeni, possiamo studiare anche lo spostamento delle popolazioni, lo sviluppo o la scomparsa di varie civilizzazioni. Ma non ci limitiamo allo studio delle patologie infettive epidemico-pandemiche, ma ne analizziamo anche altre di interesse internistico, patologie croniche, quali l’ipertensione, la gotta, la sindrome metabolica. La gotta,ad esempio, è una patologia reumatologica, legata all’acido urico. Ne abbiamo evidenza di moltissimi casi nei secoli scorsi, ma nessuna ad esempio nella civiltà egizia. Eppure, gli antichi egizi avevano una dieta fortemente ipercalorica ed erano affetti per esempio da patologie della colonna vertebrale. Ma in quell’epoca la gotta era abbastanza rara. Poi, nel corso dei secoli, ad esempio nel Medioevo, è diventata molto più frequente.

“Ci sono tanti studi su popolazioni di monaci – afferma Galasso – che dimostrano come questa patologia fosse estremamente frequente. Un caso celebre del quale mi sono occupato è quello di Federico da Montefeltro, il celebre duca rinascimentale di cui tutti ricordiamo il bellissimo ritratto nel dittico della Galleria degli Uffizi di Firenze. Il duca di Urbino in una lettera scrive al proprio medico ‘Maestro, da quando non prendo più il farmaco (e chissà di quale intruglio si trattava!) che mi avevate prescritto per voi, mi è tornato quel dolore tremendo al dito del piede destro’ cioè a livello del primo metatarso del piede, tipica sede di gotta. E noi, andando ad esaminare il suo scheletro, abbiamo trovato l’erosione, la cavitazione caratteristica dovuta alla gotta”.

“Un altro lavoro che ho avuto l’onore di pubblicare nel 2017 – prosegue Galasso – riguarda il caso più antico di gigantismo/acromegalia della specie umana, quello del faraone Sa-Nakht della Terza Dinastia(2700 a.C.). È il primo gigante della storia, con un’altezza superiore ad un metro e 90, quando la media della popolazione egiziana si attestava sul metro e 50-60. Il suo teschio presenta inoltre i classici caratteri acromegalici. Ma il faraone è vissuto oltre 40 anni e questo fa pensare che ad un certo punto ci sia stata stata una regressione parziale della patologia, magari per un infarto della ghiandola ipofisi”. Il professor Galasso ha pubblicato anche il primo caso noto di ictus in paleopatologia, riscontrato nella mummia (per preservazione naturale del corpo) di un sacerdote deceduto a metà del ‘700, in provincia di Rimini.

“Quest’ictus – spiega il paleopatologo – lasciò il sacerdote disabile per circa due anni prima del decesso. È un caso molto importante perché descritto anche in una fonte dell’epoca. E la paleopatologia è infatti una disciplina medico-antropologica, ma anche umanistica. La fonte rivela che questo sacerdote era rimasto invalido ‘ob morbus apoplecticus’ (a causa di un ictus). Noi sulla sua mummia abbiamo trovato una mano con una forte contrazione sviluppata in vita e non post-mortem. Poi, facendo la TAC a questo corpo abbiamo trovato nella carotide destra una placca calcifica. Prima di questo caso, dell’ictus esistevano solo menzioni letterarie, come quella di Cassio Dione che descrisse la morte dell’imperatore Traiano per un colpo apoplettico. Qualche anno dopo la mia pubblicazione, un collega spagnolo ha riscontrato un altro caso di ictus risalente all’antico Egitto. Oggi, stiamo cercando di accumulare sempre più evidenze a

livello globale per creare un database che preluda ad una paleo-epidemiologia delle malattie che ci aiuterà a studiare come nel corso del tempo si cambiata la loro prevalenza, incidenza, ecc”.

La pseudo-epilessia di Giulio Cesare. Nel palmarés di Galassi c’è anche questo cold-case, uno studio più nelle corde della storia della medicina, perché essendo stato cremato il corpo di Giulio Cesare, è possibile rifarsi solo alle fonti letterarie antiche, spesso molto rielaborate. “Le fonti antiche – spiega Galasso – ripetono in maniera acritica che Giulio Cesare fosse affetto da epilessia, ma con differenze sostanziali. Lo scrittore greco Plutarco dice che Cesare era affetto da attacchi epilettici, fin da bambino. Svetonio invece, autore latino, scrive che Cesare, ebbe il morbo comiziale solo un paio di volte e negli ultimi anni di vita. Una discrepanza notevole, sulla quale mi sono interrogato, parlandone anche con filologi ed esperti di letteratura classica, per capire se ci fossero differenze tra ‘morbo comiziale’ ed ‘epilessia’. Per i greci l’epilessia era una maledizione divina inviata dagli dei per punire l’uomo, ma solo nel caso dei plebei. Se si trattava di nobili invece, l’epilessia era un morbo sacro che li avvicinava alla sfera divina, perché anche semidei come Eracle si diceva fossero epilettici, di umore melanconico”. Inoltre, per i latini ‘morbo comiziale’, non significava necessariamente epilessia. Indicava qualsiasi evento (ad esempio una sincope) che facesse cadere al suolo durante un’assemblea (di qui il nome ‘comiziale’). E quando questo si verificava, veniva interpretato come un segno infausto, che portava alla sospensione immediata dell’assemblea, perché ogni decisione presa sarebbe stata considerata a sua volta infausta. “Quindi – prosegue Galasso – mi sono chiesto se Cesare fosse veramente epilettico o no. E ho concluso che non lo fosse. In primo luogo, perché manca una descrizione chiara della patologia, che all’epoca era ben nota. Inoltre ho trovato in due suoi ascendenti descrizioni di patologie cardiovascolari, forse infarti o ictus”. Morto all’età di 56 anni, Cesare per tutta la vita aveva viaggiato e combattuto, vivendo costantemente in una condizione di forte stress. Aveva inoltre anche una dieta poco sana. “Insomma – riflette Galasso – più che manifestazioni di epilessia, sembra molto più ragionevole pensare che fosse affetto da una patologia cardiovascolare, comune per la sua età”.

Ma allora perché i suoi contemporanei e poi per tutti i secoli a venire si diceva che fosse epilettico? “Qui emerge – commenta Galasso – un aspetto di propaganda politica della malattia, messo in giro da Cesare stesso o dal suo successore Ottaviano Augusto. Non potendo infatti negare il suo evidente decadimento organico, riportato dalle fonti, conveniva ammettere di essere malato, ma della malattia che hanno anche gli dei. Perché questo lo avvicinava alla sfera divina”. E d’altronde la propaganda politica basata su una malattia vera e presunta è comune ancora oggi. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Basta vedere cosa è successo nella campagna elettorale americana, che opponeva Donald Trump a Hillary Clinton. Trump denigrava in modo grossier la candidata dello schieramento opposto, suggerendo che avesse avuto un ictus e motteggiandola dicendo che non aveva il fisico per il ruolo di presidente. La Clinton fu costretta a dimostrare di non avere avuto questa patologia. Malattia e politica sono intrecciate da sempre insomma. “Fin dall’antichità – commenta Galasso – la medicina non è mai stata solo una questione puramente scientifica, ma ha sempre avuto anche una componente antropologica, culturale e sociale”.

La paleopatologia insomma andrebbe insegnata nelle facoltà di medicina? “Dal punto di vista pratico – ammette Galasso – la paleopatologia non è di immediata utilità al medico che opera nel quotidiano e che ha già tanto da studiare. Ma un breve insegnamento nel corso di laurea in medicina, focalizzato sugli aspetti principali di questa disciplina, potrebbe aiutare i medici di oggi a ragionare non solo sul presente, ma a trecentosessanta gradi sull’impatto dell’evoluzione delle malattie e sulle loro traiettorie future. Aiuterebbe ad aprire loro la mente da un punto di vista scientifico e culturale e ad interrogarsi su cos’è la malattia, cos’è il soffrire, cos’è un patogeno, cos’è la salute. Oggi invece lo studio della medicina ha un approccio un po’ troppo materialistico, troppo legato alla contemporaneità. Manca il punto di vista culturale. E dunque sì: un breve corso di paleopatologia, anche elettivo, potrebbe essere di grande giovamento ai futuri medici”.