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take control
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Parlare di conciliazione dei tempi di vita privata, cura e lavoro non significa necessariamente parlare di donne. È questo uno dei nodi più delicati del capitolo “rosa” e ha a che fare con la possibilità concreta di trovare e mantenere un’occupazione, soprattutto dopo la nascita dei figli. Gli impegni familiari si concentrano infatti sulle spalle di donne e mamme, costrette a rocambolesche imprese per incastrare tutti gli impegni della giornata: il lavoro, la casa, i figli. Una gestione che, diversamente da quanto spesso succeda, dovrebbe essere condivisa all’interno del nucleo familiare.

Parlare di conciliazione tra tempi di vita e tempi di cura è un assioma che cade necessariamente sul diabetico in quanto la malattia essendo sistemica richiede un monitoraggio non solo relegato al mero diario glicemico ma un check-up più articolato e diffuso. Gli esempi sono diversi: il controllo della vista, la visita cardiologica con ECG, solo per accenno.

Oggi per conciliare i tempi di cura e vita, per chi appartiene alla popolazione attiva (coloro che hanno un lavoro, una attività professionale e imprenditoriale) ci si arrangia grosso modo a seconda dello stato sociale e del tipo di rapporto di lavoro.

I più inquadrati nell’ottica dei vincoli lavorativi sono coloro che hanno un rapporto subordinato, in quanto debbono scendere a compromessi tra tempi di cura e di vita. Ma per facilitare tale percorso si può fare qualcosa? Credo di sì.

Si tratta in primo luogo di avviare un percorso virtuoso teso a migliorare, ottimizzandoli, i tempi di intervallo e accesso ai controlli in quello che potremmo denominare: Diabete in trip. Le tappe del giro diabetico comprendono: la visita periodica di controllo con annessi esami del sangue e urine che potrebbero concentrarsi in un unico momento; il check-up sistemico comprensivo di controllo del fondo dell’occhio, visita cardilogica+ECG, in unica giornata.

Oltre a venire incontro alle esigenze di chi deve conciliare tempi di vita e cura tale armonizzazione temporale favorirebbe anche la fascia della popolazione dei cosiddetti “giovani adulti”, più insofferente verso i tempi d’attesa.

A primavera un uccello in gabbia sa bene che c’è qualcosa a cui potrebbe servire, sente benissimo che ci sarebbe qualcosa da fare, ma non ci può far nulla, e cos’è questo? Non si ricorda bene, ha idee vaghe e dice: “Gli altri fanno i loro nidi e portano fuori i loro piccoli e li cibano” e poi sbatte il suo capino contro le grate della gabbia. Ma la gabbia resiste e l’uccello impazzisce dal dolore. “Guarda che fannullone”, dice un altro uccello che passa lì davanti, “quello è un tipo che vive di rendita”. Eppure il prigioniero continua a campare, non muore, fuori non appare nulla di quel che ha dentro, è in buona salute, e di tanto in tanto è allegro sotto i raggi del sole. Ma poi viene il tempo degli amori. Ondate di depressione. “Ma ha poi proprio tutto quel di cui ha bisogno?” dicono i bambini che si prendono cura di lui e della sua gabbietta. E lui sta appollaiato con lo sguardo proteso verso il cielo, dove sta minacciando un temporale, e dentro di sé sente ribellione per la sua sorte. “Me ne sto in gabbia, me ne sto in gabbia, e non mi manca niente, imbecilli! Ho tutto ciò di cui ho bisogno! Ma per piacere, libertà, lasciatemi essere un uccello come gli altri!”. Così, talvolta, un uomo che non fa nulla assomiglia a un uccello che non fa nulla.

– Vincent Van Gogh