crescere

In questa occasione voglio riprendere un argomento sul diabete (di tipo 1) che mi sta particolarmente a cuore, e che ancora una volta prende spunto dal recente fatto di cronaca della sedicenne morta a Firenze perché non si faceva l’insulina: il rapporto dei giovani diabetici con la malattia, e per giovani intendo tra i 14 e 20 anni di età. Questa riflessione la faccio sulla mia, e di altri miei coetanei diabetici, esperienza.

Quando ero adolescente non ho mai fatto cose azzardate o spericolate, del tipo mancare le iniezioni di insulina, ma all’epoca anch’io ho cominciato a rifiutare i controlli della glicemia, ed a mangiare, più o meno, quello che mi pareva. La fase della mia vita adolescenziale godeva del fatto che fisicamente, apparentemente, mi sentivo bene: non avevo più le crisi iperglicemiche con chetoacidosi (vomito, poliuria, disidratazione), e a parte qualche ipoglicemia “pesante” tutto sembrava filare liscio. Inoltre c’è da dire che in quel periodo i medici non riuscivano a trovare una soluzione terapeutica per un’adeguata compensazione glicemica del mio diabete.

Insomma per farla breve e dirla tutta: da un lato facevo quello che mi pareva e dall’altro avevo perso fiducia e speranza nella medicina, inoltre verso i vent’anni presi pure a cominciare col fumare le sigarette. Tirando le somme, oggi, con quelle mie azioni cominciavo a gettare le basi per future complicanze diabetiche (retinopatia, tia e via).

Per tutto questo mi sta a cuore l’approccio diabete e adolescenza: perché se un giovane diabetico viene lasciato solo, senza supporto educativo, psicologico, oltre a quello sanitario, si rischia di spianare la strada a tante difficoltà e comunque ad una vita difficile della malattia e nei rapporti umani. Quindi non restiamo soli, non lasciamo soli i ragazzi col diabete, con qualsiasi tipo di sofferenza.