Scegli la pagina da girare, uno sportello d’aprire, un giorno da vivere e un tramonto da incorniciare, postalo su Instagram o dove altro ti pare e vattelo a ricordare quell’attimo richiuso in un chiosco della memoria, ma prima chiediti: la cucina o la dieta ci salverà, uno sbarco in Normandia, uno sbarco a Lampedusa, una scusa, un’ipotenusa o ipoglicemia a farci compagnia chiuso, chiusi nella mia nostra ottusità, tanti ottusangoli sparsi in qua e là.
Al chiasso di fantasmi e ricordi s’oppongono il silenzio e l’assenza. Il margine, l’orlo, il prepuzio.
Presento al mondo un reumatismo emotivo e un alluce valgo ai piedi dell’amore. Ho amato tutti i miei lutti e ancora li amo, benché tumefatti e in necrosi di memorie e mani. Il male ha quella dannata precisione chirurgica e quel bisturi tagliente sull’ultima vocale che il bene finisce per mantenere un’artrite inguaribile che storce l’abitudine all’emozione. Diagnosi di algia nevralgica alle giunture di ciò che ho desiderato e alle cartilagini delle voci che mi stanno dentro, fuori dal coro di un oggi lontano. Pesale le mie parole. Non una è a caso. E rispetto troppo la poesia per comporne una, adesso. Questo mio dolore mi fa nicchia e statua con i capelli del cielo e la fuga d’un ratto verso il basso. Ha sapore ferroso. Direi che di rabbia è morto e di paura, sopravvissuto. Con il rancore tra i capelli e la delusione ad attutire il pesante tonfo dei ginocchi piegati. Le spalle coperte dalla sconfitta, due pinze all’altezza della vita a ricordare che qualcosa è andato stretto. È un dolore perfetto. Ostinato come un corvo che rode il fegato. Si poggia sui palmi e trancia le falangi. Ed è bello quando si mischia al mio inchiostro dando del tu al mio disagio, all’abbandono di chi se ne è andato e alla perdita delle cose rare. È sindrome e sintomo, ma non lo darei via. Mi aiuta a non dimenticare nulla. Non mi perdona e non perdona nessuno. Mi è così casa da sentirmi una della sue stanze e ectoplasma in uno dei suoi letti. L’ho conosciuto prima della felicità e mi è madre, sorella e amante.
A me dà dolore non la mia porta chiusa, ma la chiave persa. A me fa dolore persino aver sentito lo scricchiolio d’ogni costola di Dio quando ogni qualcuno è andato via.
E acido acino di agrume infuso no non resto deluso, perché e da chi, in fondo lo sai che di tutto se ne frega sì zitelli del tempo a guardare immagini fisse, in movimento, raccolto tra terabyte riposti in archivi digitali.
Ebbene sì della malattia ne fai una malattia, il diabete e altre patologie, un foglio due fogli e tre schermate passano e ti trapassano. Raccogli memoria e mescoli la cicoria senza voglia. Ora non capisci, forse capirai? Ma in fondo capirsi a che serve poi? I perché di una continuità fatta di varia umanità in coda a un casello, a riva di un terra e casa che non c’è.
Beh allora il segreto per star bene qual è?
Imballa i pensieri, fatti un timballo di zite gratinate, un viaggio una lettura, un abbraccio e un sorriso, musica onde del vento, tempo mare, dire, fare e baciare.
E questo articolo finisce qua tra una novità e un’ovvietà, domani ti aspetto non mi aspettare, sai dove trovarmi.