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Comunicazione significa letteralmente “mettere in comune”. Ciò che viene messo in comune nella comunicazione non sono beni materiali ma “messaggi” che esprimono intenzioni, sensazioni, pensieri, sentimenti, informazioni.

Ma che cosa vuol dire davvero comunicare?

L’ambiente dei fornitori d’assistenza per il diabete (medici, infermieri e affini) è conservatore, in massima parte indisposto al cambiamento nei percorsi clinici e sulle modalità di interazione con gli assistiti. Certo se volete  un ambiente ancora centrato in massima parte sulle utopie, le belle parole del tipo: manifesto dei diritti del diabetico, educazione terapeutica, empowerment e compliance, il team ed altro ancora, qui trova casa.

Nella casa dei coatti

Il diabetico è un coatto a vita, se non lo sa lo impara. E fornitori lo sanno come in parte lo sono anche loro coatti, nel bene e nel male, così come capita quotidianamente di aver a che fare con situazioni di scompenso glicemico le quali restano senza un perché. E allora accade che il diabetico di fronte alla domanda epocale fatta dal medico: “cosa è successo”, risponde inventandosi qualcosa, magari una balla per venirne fuori.

Diamo tempi al tempo

Comunicazione e comprensione vanno a braccetto nell’eterno giro di giostra della vita e della conduzione del diabete, ma come nei giochi a quiz il tempo per rispondere alla domanda sta per scadere, tu resti senza risposta e così in quei 10, 30 minuti di visita si racchiudono i restanti giorni e mesi che ci separano dal prossimo appuntamento e nel corso dei quali devi fare da te.

Non basta

Al di là delle chiacchiere, tante e in massima parte inutili, sciorinate in conferenze di ogni ordine e grado la strategia dell’attenzione e comunicazione richiede un processo integrato e articolato che provo a illustrare: la visita medica di controllo del diabete non basta e in buona parte non serve, innanzitutto occorre una quadro d’insieme affidabile sul parco assistiti (tipologie di diabete, livello di intensità e gravità della patologia, presenza o meno di complicanze e comorbilità, determinanti sociali, presenza di condizioni di disagio con la malattia – depressione, ansia, conflittualità).

Quindi predisporre reali percorsi educativi d’ingresso, esordio con la malattia e repliche ogni 5/10 anni (come fanno le associazioni di aiuto ai giovani diabetici di concerto con le pediatrie, stessa cosa va fatta per gli adulti). Impiegare le tecnologie dell’informazione per sviluppare app su smartphone in grado di fornire supporto immediato e personalizzato al diabetico ogni giorno, specie per quanti, come diceva Antonello Venditti, “affermano che la matematica non è il mio mestiere”; percorsi integrati con la telemedicina e teleformazione per non lasciare alcuno escluso e alleggerire il carico di lavoro dei fornitori di assistenza.

AMD

Mercoledì 37 novembre ha inizio il 22esimo congresso nazionale dell’Associazione Medici Diabetologi a Padova. Roma non fu costruita in un giorno ma le cose che ho elencato si possono e devono fare, se c’è la volontà e non ci rinchiude nei corporativismi e individualismi professionali, in cinque anni e anche meno. Quindi darsi una mossa, per migliorare realmente la qualità dell’assistenza dei diabetici e perché il diabete tipo 1 non è cosa vostra o di qualcuno, ma di tutti e non finisce in pediatria.